La mia storia inizia negli anni 70: oggi sono un uomo di quasi 50 anni. Convivo con il virus dell’Aids dal 1982.
Sono passati 27 anni e, nonostante oggi stia “bene”, la convivenza con la malattia è stata tormentosa; paradossalmente oggi posso dire che fisicamente sto meglio di ieri, strano, no? Purtroppo ci sono malattie che continuano a lasciare poche speranze di vita alle persone, fortunatamente con la ricerca alcune malattie che un tempo erano mortali oggi sono diventate malattie “croniche” con le quali le persone hanno a che fare per molti anni…
Contraggo l’Aids, come molti in quegli anni, perché tossicodipendente. Faccio la mia prima esperienza con la droga a 14 anni: da lì in avanti sarà per molti anni la mia ragione di vita.
I primi segnali della malattia arrivano già nel 1982. Stavo svolgendo il servizio militare, quando una mattina mi sveglio con un linfonodo sul collo. Il medico mi dice di non preoccuparmi, “sarà sicuramente dovuto ad una infezione”, e io stesso penso -non essendoci neanche una linea di febbre- che passerà sicuramente da sola, così come è venuta.
L’onda Aids
Il linfonodo era l’avvisaglia di ciò che poi sarebbe accaduto, ero sieropositivo: lo scopro quando in Italia nel 1984 si comincia a parlare “della peste del 2000” un’infezione letale che dicono colpire tossicodipendenti e omosessuali e che si trasmette attraverso uno scambio diretto di sangue (ndr la data ufficiale –il primo riscontro medico- che segna l’inizio dell’epidemia dell’AIDS è il 5 giugno 1981)
La prima a morire è una mia carissima amica. Le notizie si rincorrono: infezione da “HTLV III”, “no si tratta di tumore al cervello”, inizia la paura. Se prima il timore più grande era quello di prendersi un’epatite adesso era quello dell’AIDS. In quegli anni la pratica dello scambio di siringhe era diffusissima tra i tossicodipendenti, si iniziano a cambiare le abitudini e a fare attenzione ai primi messaggi di prevenzione. Passano alcuni anni e arrivo al 1986: continuo imperterrito con il mio stile di vita e continuo anche con la droga. Intorno a me le persone muoiono e corrono un sacco di voci su amici ammalati di Aids. A quei tempi penso spesso che potrei aver contratto anche io il virus ma cerco di convincermi del contrario, dicendomi; “possibile che con tutti i tossici che ci sono in giro oggi debba capitare proprio a me?”.
“Positivo”. In che senso?
Mi decido in seguito ad un’epatite che mi viene diagnosticata e che ho superato senza accorgermene, di sottopormi al test. Il test si chiamava Elisa e il contro test Western blot. Dopo una settimana arrivo alla portineria dell’ospedale per ritirare gli esiti, mi viene consegnata in mano una busta chiusa, la tentazione è forte, la apro immediatamente e la prima cosa che vedo è un timbro rosso con su scritto “POSITIVO”. Non riesco a realizzare, addirittura penso che positivo significhi non essere contagiato vado completamente in confusione non riesco a crederci mi sembra di impazzire contatto immediatamente per telefono il mio medico che mi aveva prescritto il test. Lui mi rassicura e mi fissa un appuntamento. Ci incontriamo nel suo studio dove mi conferma l’esito del test e cerca di rassicurarmi sulle prospettive di vita. Dopo pochi giorni mi invita una sera dopo cena a casa sua dove mi reco con la mia ragazza; ad accogliermi c’è lui, sua moglie ed una coppia di suoi amici, anche loro immagino medici. La sensazione che ho avuto in quell’incontro è quella di essere osservato come se fossi un “diverso”, mi sentivo gli occhi addosso e le domande che mi facevano trasudavano di ipocrisia. Non ho retto a quella situazione, dopo dieci minuti me ne sono andato ancora più spaventato di prima. Mi avevano confermato con i loro sguardi che non c’era speranza, che sarei dovuto morire da li a poco.
Il contagio è nella mente
Nel frattempo ho informato i miei genitori di ciò che mi stava succedendo: è stato uno shock, mia madre non sapeva come comportarsi non era informata sull’argomento (in quegli anni pochi lo erano). I giornali scrivevano titoloni definendo questa malattia come la nuova Peste del 2000. Alla paura e al dramma di perdere un figlio, si associava il timore di contagiare gli altri membri della famiglia, quindi utilizzavo le mie posate e i miei piatti. Solo in seguito i miei sono stati informati su come poteva avvenire il contagio dal virus del Hiv. Inizio a essere seguito presso un ospedale della città dove da ragazzo avevo studiato per quattro anni, l’unico farmaco disponibile in quegli anni era il Retrovir, delle capsule bianche e azzurre che assunte da sole non mi hanno mai portato nessun beneficio. Ai primi esami clinici mi viene comunicato che la mia situazione immunitaria è abbastanza compromessa e quindi mi invitano a iniziare la terapia antiretrovirale con questo farmaco.
Nel frattempo il mio rapporto con l’eroina è diventato sempre più profondo, riesco a trovare un pò di sollievo dai miei pensieri solo quando ne faccio abbondante uso. Continuo così sino a quando nel 1990 a causa di un grave incidente, vengo ricoverato in ospedale dove trascorro due settimane, per la forte astinenza mi viene un blocco renale, l’ospedale mi aiuta con del metadone (farmaco sostitutivo per oppiacei) e dopo pochi giorni mi dimettono.
Il calvario
Nei primi mesi del 1991 entro in comunità e qui, dopo aver superato il problema della tossicodipendenza, inizio ad aggravarmi, le difese immunitarie sono sempre più basse i farmaci a disposizione non riescono a fermare l’avanzare dell’Hiv, vengo trasferito in una struttura comunitaria in provincia di Milano, vicino a un grande ospedale specializzato in malattie infettive. Incontro moltissimi ragazzi, quasi tutti con il virus dell’Hiv e molti con la malattia conclamata, tutti i mesi muore qualcuno. Passano il 1994, il 95, il 96: i reparti di malattie infettive sono sempre pieni non c’è posto per nuovi ricoveri ci sono ragazzi con febbri altissime che vengono assistiti dai propri amici poiché non c’è posto per ricoverarli. Mi ammalo anche io, ho le difese immunitarie bassissime e sempre una febbriciattola della quale non riescono a capire le causa, mesi e mesi di analisi ma niente; non si riscontrano infezioni opportunistiche sino a che durante un ricovero in reparto di malattie infettive del Policlinico San Matteo di Pavia mi viene riscontrata una micobatteriosi atipica. Inizio la cura con dei farmaci che i miei amici andavano a prendermi in Svizzera poiché in Italia non venivano più commercializzati da anni. Le difese immunitarie nel frattempo sono diventate inesistenti e subentrano una serie impressionante di infezioni opportunistiche: Polmoniti, Candidosi esofagea, Citomegalovirus, praticamente passo tre anni con vari ricoveri al San Matteo di Pavia. Solo ogni mese e mezzo due mesi esco magari per tre quattro giorni ma subito subentra un’ulteriore infezione con febbre altissima e mi ricoverano ancora.
Non ci sono a disposizione farmaci efficaci per rallentare l’infezione da Hiv, sono consapevole e lucido di ciò che mi aspetta ma non smetto mai di lottare. Sono ridotto a quaranta chilogrammi di peso, non riesco nemmeno a tenere la testa dritta, è talmente pesante che mi piega il collo. Siamo nel frattempo arrivati nella prima metà del 1996, sono sempre in ospedale e leggo nello sguardo degli amici che mi fanno visita lo spavento di vedermi in tali condizioni.
E 111 e amici: la salvezza
Era il 1997, un giorno mi telefona un caro amico e mi dà una notizia fantastica; mi dice “ho sentito che sono disponibili in Francia dei farmaci veramente efficaci e che funzionano”. Ci sono persone in Francia che erano già condannate e si stanno riprendendo. La comunità si attiva, riesco ottenere il Modello E111 per l’assistenza sanitaria all’estero, che comprende anche la fornitura di farmaci non disponibili in Italia. Inizio ad assumere una combinazione di farmaci (Crixivan, Zerit, Epivir). Mentre sono ricoverato in ospedale i medici mi chiedono che farmaci sono e non conoscendoli mi sconsigliano di prenderli ma io faccio di testa mia e li prendo in maniera regolare. Dopo quindici giorni mi sento già meglio, sento che qualcosa nel mio corpo sta cambiando quasi come se stesse sbocciando di nuovo la vita. Con il passare del tempo mi sento sempre meglio, non solo fisicamente ma anche psicologicamente, riprendo la mia vita con ancora più motivazione.
I nuovi farmaci e l’ambiente in cui vivo mi consentono di avere una vita normale, di essere attivo, di essere ancora una persona che ha tanto da dare. Sono passati 10 anni e, da persona a un passo dalla morte, sono tornato a vivere con lo stesso ritmo di una persona “normale”.
La forza negli altri e in se stessi
Negli anni difficili della mia malattia non mi sono mai sentito solo. La paura di morire mi ha accompagnato spesso, ma in quel periodo ho scoperto qualcosa di più profondo e più forte della malattia: l’amore, il sostegno e la solidarietà delle persone che mi circondavano mi ha fatto sentire una persona come le altre e quindi non discriminata. Vedere molte persone intorno a me stare bene e convivere con la malattia sino ad accettarla, anche questo è stata la mia forza.
Oggi, dopo aver vinto la sfida della paura di questa malattia, che ritengo di aver affrontato e superato con caparbietà e decisione, e dopo aver trascorso alcuni svolgendo lavori occasionali, da poco più di un anno lavoro di nuovo in Dianova, che mi ha offerto la possibilità di svolgere realmente quello che nella vita credo di saper fare meglio.
Il mio ruolo è quello di responsabile organizzativo, mi occupo nella comunità di organizzare le attività presenti nella struttura e coordinare gli operatori che vi lavorano; tenendo sempre presente i bisogni delle persone che intraprendono un percorso riabilitativo residenziale.
Mi ritrovo oggi ad affrontare delle giornate intense senza un attimo di tregua ma che mi riempiono l’esistenza e mi gratificano. Ho ritrovato vecchi amici e incontrato persone mai conosciute prima; ognuna di loro apporta all’interno della comunità la propria professionalità e il proprio lato umano.
Nella comunità in cui lavoro sono ospiti circa 40 persone: l’Aids fortunatamente non è più quel flagello che ho conosciuto ma è ancora presente e non dobbiamo mai abbassare la guardia. In Dianova cerchiamo di informare e sostenere le persone, di accettare la propria condizione, gli insegniamo a conviverci, a rispettare l’altro e a seguire le cure. Ma soprattutto ad amare se stessi.